Tutela giudiziaria
Il 2006 è iniziato con importanti novità di ordine giuridico in relazione alle problematiche connesse alla disabilità.
L’entrata in vigore della legge concernente misure per la tutela giudiziaria delle persone disabili vittime di discriminazioni (L. 1 marzo 2006 n. 67) rappresenta senza dubbio un’ importante presa di coscienza delle istituzioni.
La portata della nuova legge va colta nel riconoscimento diretto ed immediato di quanto in precedenza era desumibile in virtù di procedimenti interpretativi e di combinazioni tra norme.
Il risultato delle nuove disposizioni, pertanto, sembra essere quello di un vertiginoso abbassamento del livello di astrazione per la qualificazione normativa di determinati interessi connessi alla condizione di disabilità, e quindi di una semplificazione dei procedimenti logici di riconducibilità alla norma.
Il legislatore si è già espresso sul tema della discriminazione della persona disabile e lo ha fatto in relazione al mondo del lavoro con le disposizioni contenute nel D.Lgs 216/2003, concepito per tutelare il lavoratore contro le condotte discriminatorie perpetrate a suo danno.
Il D.Lgs. 216/2003 ha previsto espressamente la posizione del lavoratore disabile vittima di discriminazioni, ha dato una definizione opportunamente elastica delle possibili condotte discriminatorie ed ha costituito uno strumento di difesa giudiziaria celere e semplice finalizzato e rendere effettiva la tutela della situazione lesa.
Se il legislatore, infatti, ha previsto da una parte che la discriminazione possa essere perpetrata sia in forma diretta che in forma indiretta, ha anche richiamato, dall’altra, l’istituto processuale previsto dall’art 44 del D.Lgs. 25/07/1998, n. 286, già contemplato nell’ambito della tutela del soggetto straniero.
La nuova legge, sulla scia del D.lgs 216/2003, ha esteso la tutela antidiscriminatoria dall’ambiente lavorativo a tutti gli ambienti di vita della persona disabile, in perfetta coerenza con gli art 2 e 3 della costituzione, ed ha richiamato, di nuovo, lo strumento processuale di cui all’art 44 D. Lgs 286/1998.
Si è realizzato quello che era opportuno, e cioè, consentire al soggetto disabile una tutela rapida ed efficace contro tutte le discriminazioni perpetrate a suo danno in tutte le formazioni sociali ove si svolga la sua personalità.
La procedura istituita dal citato art 44 per caratteristiche genetiche è necessariamente semplificata. Nasce infatti nell’ambito della disciplina sull’immigrazione dove la semplificazione della tutela processuale è elemento essenziale.
La semplificazione consiste nel ridurre le formalità di rito e nel conferire al Tribunale la facoltà di procedere nel modo ritenuto più opportuno agli atti di istruzione.
Se associamo poi il ricorso alla prova presuntiva e l’estensione dei titolari della legittimazione attiva, ci possiamo rendere conto di come il sistema abbia, quanto meno sulla carta, tutte le caratteristiche per sortire effetti positivi.
Anche enti ed associazioni preventivamente delegati dal disabile hanno la possibilità di agire in giudizio per la rimozione delle condotte discriminatorie e per il risarcimento del danno patrimoniale e non.
Dal punto di vista risarcitorio l’espressa contemplazione del danno non patrimoniale sembra, a nostro parere, confermare il danno esistenziale come tipologia di danno risarcibile, e come danno strettamente connesso alla condizione di disabilià.
Quantomeno ci auspichiamo che la giurisprudenza prenda questo indirizzo.
Se da un lato la protezione dei diritti fondamentali della persona disabile si è opportunamente potenziata anche attraverso nuovi strumenti processuali, dall’altro, non devono essere dimenticati quegli interventi giurisprudenziali che hanno sottolineato l’importanza della partecipazione consapevole al processo.
Anche in questo ambito un intervento che aveva trovato la sua origine nella tutela del soggetto straniero è stato in un secondo momento ricondotto alle ipotesi inerenti alla disabilità.
Ci riferiamo in particolare alla sentenza della Corte Costituzionale 22 luglio 1999, n. 341 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 119 c.p.p. “ nella parte in cui non prevede che l’imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia o meno leggere e scrivere, ha diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza fra persone abituate a trattare con lui, al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa.”.
Il testo originario dell’art 119 c.p.p. pur considerando la posizione processuale del disabile sensoriale prevedeva misure non idonee a garantirne la partecipazione attiva in tutte le fasi del procedimento.
La disposizione infatti si limitava a contemplare i momenti in cui gli imputati muti, sordi o sordomuti avessero voluto o dovuto fare dichiarazioni, senza estendersi a tutta la dinamica dibattimentale.
Ciò non poteva non apparire in palese contrasto con le garanzie, per la cui effettività, la partecipazione integrale e consapevole dell’imputato alla dialettica processuale è dato imprescindibile
La corte costituzionale ha apportato dunque un correttivo alla formulazione originaria dell’art 119 c.p.p. riproponendo in tema di disabilità sensoriale e processo quanto l’art 143 c.p.p. già aveva previsto in relazione all’imputato straniero.
L’art 143 c.p.p. ha riconosciuto il diritto dell’imputato straniero all’assistenza gratuita dell’interprete affinché possa comprendere l’accusa contro di lui formulata e possa seguire il compimento degli atti.
In relazione all’imputato straniero già il tenore letterale dell’art 143 c.p.p. ha dissimulato l’esigenza di garantire la comprensione del processo nella sua integrità e proprio a questo scopo ha previsto l’apporto del traduttore non soltanto nel momento delle dichiarazioni volute o dovute ma durante tutto il dibattimento.
Affinché la stessa possibilità potesse essere fruita anche dal disabile sensoriale si è reso necessario l’intervento della Corte Costituzionale che correggendo una disattenzione del legislatore ha confermato una serie di principi imprescindibili in tema di garanzie e previsto anche il mezzo più opportuno per la loro concretizzazione.
Da una parte l’esigenza di creare tutti i presupposti per rendere possibile la percezione di ciò che accade durante il dibattimento, antecedente necessario in un sistema processuale in cui l’ambito di formazione della prova è, salvo le eccezioni previste dalla legge, il dibattimento.
Dall’altra l’opportunità di designare a sostegno dei disabili le persone vicine dal punto di vista relazionale ed affittivo.
L’ordinamento, in relazione ai casi di disabilià sensoriale, conscio delle difficoltà comunicative che fisiologicamente sono riconnesse a questo tipo di menomazioni, non poteva limitarsi a prevedere il supporto di esperti nel linguaggio dei sordomuti.
In molti casi, infatti, solo le persone con cui il disabile sensoriale interagisce abitualmente sanno cogliere il contenuto effettivo delle sue manifestazioni ed esternazioni.
Anche al di là del sostegno psicologico che possa derivare al disabile dall’avere accanto, in momenti così significativi e delicati, una persona di cui si può fidare, la preferenza accordata sembra proprio finalizzata a garantire al giudice la comprensione di quello che l’imputato effettivamente vuole esprimere.
La partecipazione al processo però non è stata limitata soltanto da barriere sensoriali ma anche da barriere architettoniche.
In relazione a tali problematiche la Cassazione ha evinto dal combinato disposto della Legge 104/1992 e del D.P.R. 503/1996 lo specifico obbligo delle istituzioni di attivarsi affinché la persona disabile possa esercitare dignitosamente i fondamentali diritti individuali e sociali, tra i quali, ovviamente, la difesa processuale.
Con sentenza del 17 dicembre 2001, n. 3376 la suprema corte ha stabilito che l’assoluta impossibilità di comparire al processo, ascrivibile alle ipotesi di caso fortuito e di forza maggiore deve essere “… riconosciuta anche nel caso in cui, trattandosi di imputato portatore di handicap, lo stesso abbia preventivamente manifestato la sua intenzione di partecipare al dibattimento e, al tempo stesso, l’impossibilità di accedere ai locali di udienza a causa della presenza di barriere architettoniche …”
Nel caso in esame un imputato deambulante su carrozzella era stato dichiarato contumace data l’impossibilità di partecipare al processo a causa dell’inagibilità dell’aula.
Il giudice di merito aveva ritenuto non giustificato l’impedimento costituito dalle barriere architettoniche che ostacolavano l’accesso ai locali di udienza.
Si era giunti a tali conclusioni sull’assunto che l’impedimento avrebbe potuto essere eliminato con mezzi ausiliari, tra cui anche il trasporto a braccia del disabile nell’aula di udienza.
In difformità alla giurisprudenza di merito la Cassazione ha ritenuto illegittima la declaratoria della contumacia ed ha affermato che gli “…interventi di rimozione degli ostacoli debbono essere previsti rispetto al manifestarsi dell’esigenza della persona disabile e i problemi di questa non possono essere considerati problemi individuali, ma debbono essere assunti dall’intera collettività…” , pertanto, “… una volta che l’autorità giudiziaria abbia convocato il cittadino a comparire in giudizio, spetta in via generale all’amministrazione garantire che per le persone disabili siano assicurate modalità di accesso ai locali rispettose dell’uguaglianza e della pari dignità di tutti i cittadini…”
Prevedere nuovi istituti processuali da utilizzare per la tutela dei diritti della persona con disabilità risulta di fondamentale importanza e possiamo affermare che vi sia stata da parte dell’ordinamento giuridico una presa di coscienza in tale senso.
Ma se l’istituzione, o semplicemente l’estensione di nuove procedure, può risolvere determinati problemi a valle, non deve essere dimenticato, se non si voglia vanificare la funzionalità di determinati istituiti, che a monte devono essere realizzate le condizioni di partecipazione fisica e psichica della persona disabile al processo.
I due piani di intervento sono concomitanti ed inscindibili, l’uno deve essere concepito come rafforzativo dell’altro.
Semplicità, velocità delle procedure, estensione dei legittimati ad agire, partecipazione reale del diretto interessato al procedimento, non sono forse i principi sui quali si fonda anche la disciplina sull’amministrazione di sostegno?
Se a questa domanda si può rispondere affermativamente sembra allora visibile l’orizzonte verso il quale si sta muovendo l’ordinamento, ma sarà opportuno che la barca non rimanga alla deriva.
Dr. Michele Costa
Informarecomunicando – Centro d’informazione per la disabilità.
UILDM. Sez. Pisa